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Istat: livelli di istruzione della popolazione e ritorni occupazionali, i principali indicatori

Nel 2017, in Italia, si stima che il 60,9% della popolazione di 25-64 anni abbia  almeno un titolo di studio secondario superiore; valore distante da quello medio europeo (77,5%). Sulla differenza pesa in particolare la bassa quota di titoli terziari: 18,7% in Italia e 31,4% nella media Ue.

Dal 2008 al 2017 la quota di popolazione con almeno il diploma secondario superiore è in deciso aumento. Più contenuta, rispetto alla media europea, è invece la crescita della quota di popolazione con un titolo terziario.

Il livello di istruzione delle donne risulta più elevato di quello maschile: il 63,0% ha almeno un titolo secondario superiore (contro 58,8% degli uomini) e il 21,5% ha conseguito un titolo di studio terziario (contro 15,8% degli uomini). Inoltre, i livelli di istruzione femminili stanno aumentando più velocemente di quelli maschili.

A differenza di quanto accaduto in altri paesi europei, negli ultimi nove anni, in Italia, la quota di stranieri in possesso almeno del titolo secondario superiore si è molto ridotta e al tempo stesso non è aumentata la quota di chi ha un titolo terziario.

Nel 2017, la quota di 18-24enni che hanno abbandonato precocemente gli studi si stima pari al 14,0%; per la prima volta dal 2008 il dato non ha registrato un miglioramento rispetto all’anno precedente. In Italia l’abbandono scolastico precoce è molto più rilevante tra gli stranieri rispetto agli italiani (33,1% contro 12,1%). Tuttavia dal 2008 ad oggi, proprio tra gli stranieri si è registrato il miglioramento più consistente.

Le differenze territoriali negli abbandoni scolastici precoci sono molto forti – 18,5% nel Mezzogiorno, 10,7% nel Centro, 11,3% nel Nord – e non accennano a ridursi.

Nel 2017, la quota di 30-34enni in possesso di titolo di studio terziario è pari al 26,9% (39,9% la media Ue).  Nonostante un aumento dal 2008 al 2017 di 7,7 punti
l’Italia è la penultima tra i paesi dell’Unione e non è riuscita a ridurre il divario con l’Europa.

Nonostante la quota di 30-34enni con un titolo terziario sia bassa anche tra i cittadini italiani (30,1%) tra gli stranieri scende all’11,8 (il gap di cittadinanza nella media Ue è invece inferiore ai 5 punti).

La quota di 30-34enni laureati, già bassa nel Nord e nel Centro (30,0% e 29,9%), nel Mezzogiorno si riduce al 21,6%, con un divario territoriale in aumento. Il divario di genere è a favore delle giovani donne – è’ laureata oltre una giovane su tre a fronte di un giovane su cinque –  superiore a quello medio europeo e degli altri grandi paesi dell’Unione e in forte aumento.

In Italia, il premio dell’istruzione – inteso come la maggiore occupabilità al crescere dei livelli di istruzione – è pari a 19,1 punti nel passaggio dal titolo secondario inferiore al titolo secondario superiore e a 9,7 punti nel confronto tra quest’ultimo ed il titolo terziario. I vantaggi nell’occupazione sono maggiori proprio laddove si rilevano le maggiori criticità ossia per le donne e nel Mezzogiorno.

La quota di giovani con medio e alto titolo di studio che non studiano e non lavorano è in deciso calo negli ultimi tre anni (dal 28,3% al 25,5% e dal 26,4% al 21,4%, rispettivamente); minimo invece il decremento dei NEET tra i giovani con al più la scuola secondaria inferiore (dal 23,9% al 23,4%).

Tra chi ha abbondonato precocemente gli studi, nel 2017 meno di un giovane su tre lavora (31,5%), quota stabile negli ultimi tre anni dopo il drastico calo conseguente alla crisi (nel 2008 lavorava un giovane su due).

Tra i giovani che hanno concluso il percorso di istruzione e formazione da non più di tre anni, il tasso di occupazione nel 2017 è stimato al 48,4% per i diplomati (74,1% la media europea) e al 62,7% per chi ha un titolo di studio terziario (84,9% la media Ue).

Durante la crisi, le prospettive occupazionali dei giovani italiani al termine dei percorsi di istruzione e formazione hanno registrato un deterioramento molto più marcato rispetto ai pari europei. Tuttavia, nell’ultimo triennio, si è registrato un recupero più deciso rispetto alla media europea.

Il gap di cittadinanza è molto ampio in Europa, soprattutto in Francia e Germania. Fanno eccezione il Regno Unito, dove il livello di istruzione degli stranieri è superiore a quello dei cittadini inglesi, e la Spagna, che presenta quote di coloro con almeno un diploma secondario superiore piuttosto simili tra stranieri e locali.

A differenza di quanto accaduto in altri paesi europei, in Italia questo divario è cresciuto nel tempo. Nel 2008 la quota di stranieri con almeno un titolo di studio secondario superiore era analoga a quella degli italiani e solo di poco inferiore era quella di quanti in possesso di un titolo terziario. Negli ultimi nove anni, la quota di stranieri con almeno il titolo secondario superiore si è molto ridotta e al tempo stesso non è aumentata la quota di chi ha un titolo terziario. Ciò può trovare ragione nel fatto che tra i cittadini stranieri arrivati nel Paese tra il 2009 e il 2017 la quota di coloro che hanno almeno un livello di istruzione secondario superiore è più bassa rispetto a quella di chi risiede da più tempo in Italia.

Sul territorio nazionale il più basso livello di istruzione si riscontra nel Mezzogiorno, dove poco più di un adulto su due ha conseguito almeno il diploma di scuola secondaria superiore; al Centro si stima invece il valore più alto, oltre due adulti su tre

Inoltre, poiché si stima che la quasi totalità dei cittadini stranieri di 25-64 anni è arrivata in Italia a un’età superiore ai 15 anni (e tra coloro con al più un titolo secondario inferiore, circa l’83%  è arrivato in Italia ad un’età superiore ai 19 anni e il 60% ad un’età maggiore  di 24 anni) è presumibile che per la maggioranza di questi il percorso formativo si sia concluso già nel paese di origine.

Situazione analoga si rileva per il livello di istruzione terziario che è minimo nel Mezzogiorno (15,1%) e massimo al Centro (22,8%). Le differenze territoriali permangono indipendentemente dal genere, ma sono più marcate per la componente femminile. Dal 2008 al 2017 la quota di adulti con almeno il diploma secondario superiore è aumentata in egual misura nelle tre ripartizioni territoriali mentre l’incremento di chi possiede un titolo terziario è stato più contenuto nel Mezzogiorno.

I divari generazionali sono evidenti da molti punti di vista. I più giovani sono anche i più istruiti: il 74,8% dei 25-34enni ha almeno il diploma di scuola secondaria superiore contro il 47,0% dei 60-64enni; anche se resta forte lo svantaggio dell’Italia rispetto al resto d’Europa. Inoltre, aumentano le differenze di genere a favore delle donne nelle classi di età più giovani; ciò che non cambia sono i divari territoriali nei livelli di istruzione all’interno del Paese, che permangono anche fra i più giovani. Infine, i differenziali nei livelli di istruzione tra immigrati e italiani sono via via più accentuati andando dalle classi di età più mature, dove il livello di istruzione degli stranieri è piuttosto simile a quello degli italiani, verso quelle più giovani.

Questi dati mettono in luce le criticità dell’Italia nel cogliere l’obiettivo di portare tutti i giovani a raggiungere adeguati livelli di istruzione e, conseguentemente, nel garantire equità nei livelli di benessere della popolazione.

 

Forti disuguaglianze territoriali nella quota di giovani che abbandonano gli studi

L’Italia mostra notevoli progressi sul fronte degli abbandoni scolastici. La quota di 18-24enni che posseggono al più un titolo secondario inferiore fuori dal sistema di istruzione e formazione (Early leavers from education and training – ELET) è in sensibile calo negli anni, passando dal 19,6% del 2008 al 13,8% del 2016. Nel 2017, la quota si attesta al 14,0% (580 mila giovani) e, per la prima volta dal 2008, non registra un ulteriore miglioramento.

Questo indicatore fa parte della Strategia Europa 2020 sull’istruzione che fissa al 10% l’obiettivo per l’Europa. In media Ue il raggiungimento dell’obiettivo è vicino, lo stesso accade – tra i più grandi paesi europei – per il Regno Unito, mentre la Germania l’ha già praticamente raggiunto e la Francia lo ha superato da diversi anni. In Italia, il differenziale rispetto al valore medio Ue si è ridotto dal 2009, ma è ancora pari a -3,4 punti nel 2017 (-4,9 punti nel 2008)

Anche per questo indicatore si stima un vantaggio femminile, nel senso che le giovani sono meno frequentemente coinvolte nel fenomeno dell’abbandono scolastico precoce rispetto ai coetanei (11,2% contro 16,6%). Tuttavia questo vantaggio viene meno se si considera la quota di giovani ELET che si sono inseriti nel mondo del lavoro rispetto alla quota che è rimasta ai margini: sono infatti gli uomini ad essere più presenti nel mercato del lavoro.

Il fenomeno dell’uscita precoce è molto più acuto per i giovani stranieri rispetto agli italiani: 33,1% contro 12,1%. Nonostante questa differenza molto marcata, dal 2008 ad oggi proprio tra i primi si è registrato il maggior progresso.

Il profilo territoriale del fenomeno mette in luce divari persistenti e molto ampi: l’abbandono degli studi prima del completamento del sistema secondario superiore o della formazione professionale raggiunge il 18,5% nel Mezzogiorno (11,3% nel Nord e 10,7% nel Centro) ed il divario territoriale non accenna a ridursi

Peraltro, se nel Centro-Nord il mancato proseguimento degli studi si accompagna a un numero più consistente di giovani occupati, pur con basso livello di istruzione, nelle regioni meridionali gli occupati usciti precocemente dagli studi sono una minoranza. Ciononostante, i vantaggi in termini occupazionali nel conseguire almeno un diploma di scuola superiore sono forti, l’abbandono scolastico si dimostra dunque un ostacolo seriamente penalizzante.

Da una recente indagine dell’Istat emerge che le principali ragioni per cui i giovani, dopo la licenza media, decidono di non proseguire gli studi oppure di abbandonare il percorso di studi superiori intrapresi, non sono solo la volontà di lavorare ma anche la difficoltà e/o la mancanza di interesse negli studi e, per i giovani stranieri, anche ragioni familiari, da intendersi in senso lato, ovvero sia come impegni/responsabilità nei confronti della famiglia, sia come mancato sostegno/incoraggiamento familiare.

 

Italia penultima tra i Paesi dell’Unione per numero di laureati

Nel confronto con l’Europa, l’Italia ha una posizione molto arretrata riguardo al secondo obiettivo della strategia Europa 2020 legato all’istruzione: innalzare al 40% la quota di giovani 30-34enni con titolo di studio terziario. Questo obiettivo è stato giudicato fondamentale nella “società della conoscenza”, sia per stimolare la crescita economica sia per rendere compatibile crescita e inclusione sociale.

Nel 2017, la quota di 30-34enni in possesso di titolo di studio terziario è stimata pari al 26,9% (39,9% la media Ue).  Nonostante un aumento dal 2008 al 2017 di 7,7 punti l’Italia è la penultima tra i paesi dell’Unione e non è riuscita a ridurre il divario con l’Europa

Questo risultato, risente certamente anche della mancanza di una efficace alternativa ai corsi di laurea rappresentata dai corsi terziari di ciclo breve professionalizzanti (corrispondenti al livello 5 della ISCED2011), capaci, cioè, di recepire le esigenze di quanti vorrebbero conseguire un titolo di alto livello fuori dai tradizionali percorsi universitari.

Queste tipologie di corso sono piuttosto diffuse in diversi Paesi europei; in Spagna e Francia circa un terzo dei titoli terziari posseduti dai 30-34enni ha queste caratteristiche.

Per i giovani stranieri il divario con la media europea è ancora più marcato. Nel 2017 solo l’11,8% dei 30-34enni stranieri ha un titolo terziario (30,1% tra i cittadini italiani); indice che l’Italia attrae stranieri poco istruiti. Il gap di cittadinanza medio europeo è inferiore ai 5 punti (in media Ue, la quota di stranieri in possesso di un titolo terziario è stimata al 35,6%), intorno ai 9 punti in Francia, praticamente assente in Germania a favore degli stranieri nel Regno Unito. Tra i grandi Paesi europei, solo la Spagna ha un differenziale ancora più elevato (20,9 punti), al quale tuttavia si associa una quota di stranieri in possesso di un titolo di studio terziario significativamente più alta rispetto a quella registrata in Italia.

Il divario di genere in Italia è molto forte, con oltre una giovane su tre laureata a fronte di un giovane su cinque (tale divario è superiore a quello medio europeo ed agli altri grandi Paesi dell’Unione). Dal 2008 al 2017 l’incremento nella quota di donne giovani laureate è stato significativamente più sostenuto rispetto a quello degli uomini.

Anche per i laureati si riscontra un divario territoriale piuttosto accentuato; se la quota di 30-34enni laureati è bassa nel Nord e nel Centro (30,0% e 29,9%), nel Mezzogiorno si riduce al 21,6%  ed il differenziale territoriale si sta ampliando.

Da un calcolo approssimato, basato sul confronto tra l’anno di conseguimento del titolo e l’anno di arrivo in Italia, si stima che tra i laureati stranieri di 30-34 anni solo uno su quattro ha conseguito il titolo nel nostro Paese. D’altronde, il 68% circa dei 30-34enni stranieri non laureati è arrivato in Italia a 20 anni o più e dunque con un percorso formativo che per molti di questi si era già concluso nel paese di origine.

La percentuale dei 30-34enni con una laurea nelle discipline STEM (Science, Technology, Eengineering and Mathematics) è stimata pari al 24,2% (il 37,5% tra i maschi e il 16,3% tra le femmine). Oltre una laureata su quattro ha un titolo nell’area disciplinare umanistica e servizi (27,7%) e meno di un laureato ogni sette (13,3%). Tra le donne è superiore anche la quota di laureate in medicina e farmacia (18,0% verso 13,4%).

 

Gli effetti dell’istruzione sull’occupazione

Il livello di istruzione influisce sulla partecipazione al mercato del lavoro, sia come livelli sia come qualità. In generale, le prospettive occupazionali migliorano per gli individui che hanno raggiunto almeno un titolo secondario superiore e sono massime per coloro che raggiungono un titolo terziario.

 

Vantaggi occupazionali per titoli di studio più alti

Nel 2017 si stima che il differenziale nei tassi di occupazione tra le persone di 25-64 anni che hanno raggiunto il titolo terziario e quelle che posseggono al più un titolo secondario inferiore sia di 28,8 punti (media Ue 29,7 punti). Il premio dell’istruzione – inteso come la maggiore occupabilità al crescere dei livelli di istruzione – è pari a 19,1 punti nel passaggio dal titolo secondario inferiore al titolo secondario superiore e a 9,7 punti nel confronto tra quest’ultimo ed il titolo terziario (20,1 e 9,6 punti, sono i rispettivi valori Ue).

Il vantaggio occupazionale di un elevato livello di istruzione è più marcato nella componente femminile in tutti i Paesi Ue e in particolar modo in Italia: le donne che raggiungono il titolo terziario hanno un tasso di occupazione di oltre 40 punti superiore rispetto alle coetanee con basso livello di istruzione (vantaggio più che doppio rispetto a quello degli uomini), e la differenza tra alta e media istruzione è di 16,2 punti (scarto maggiore di oltre tre volte quello maschile).

I massimi vantaggi occupazionali dell’istruzione (e in particolare per le donne) si osservano laddove vi sono le maggiori criticità occupazionali: nel Mezzogiorno.  Per le donne residenti in queste zone possedere un titolo di studio terziario è decisivo per una migliore partecipazione al mercato del lavoro. Accrescere l’istruzione e quindi le opportunità che offre, rappresenta pertanto un modo per ridurre i divari e le disuguaglianze

Nonostante in Italia i vantaggi occupazionali derivanti da più alti livelli di istruzione siano simili a quelli registrati nella media Ue, i tassi di occupazione restano inferiori a quelli europei (51,8%, 70,9% e 80,6% contro 55,6%, 75,7% e 85,3% rispettivamente per coloro che possiedono bassi, medi ed alti titoli di studio).

A parità di livello di istruzione resta, tra uomini e donne, un rilevante svantaggio femminile anche tra quante hanno un titolo terziario (77,0% di occupate contro 85,7%). Nella popolazione con titolo terziario permangono ampie disuguaglianze territoriali (70,8% di occupati nel Mezzogiorno, 85,4% nel Nord), ancora più marcate per la componente femminile (65,7% nel Mezzogiorno, 82,2% nel Nord).

Il vantaggio occupazionale di chi ha un’alta istruzione non ha registrato variazioni importanti dal 2008 al 2017. Questo risultato è sintesi di andamenti opposti: un crescente vantaggio occupazionale per chi possiede un titolo terziario rispetto a chi ha il titolo secondario superiore ed una forte riduzione del vantaggio occupazionale del titolo secondario superiore rispetto a quello inferiore. Durante la crisi economica la più elevata perdita occupazionale si è registrata infatti proprio nella popolazione con medio livello di istruzione.

Restringendo il campo di osservazione alla generazione dei giovani di 30-34 anni, si stima che il premio occupazionale al crescere dei livelli di istruzione sia più contenuto rispetto a quanto osservato per le precedenti generazioni ed inferiore rispetto a quello medio europeo (anche i livelli occupazionali sono di molto inferiori ai valori europei) questo è indice di criticità nel mercato del lavoro giovanile italiano, indipendenti dal livello di istruzione e certamente acutizzate dalla crisi economica.

Resta comunque sensibile l’incremento del tasso di occupazione al crescere del livello di istruzione: nel 2017, il tasso è del 54,8% per i giovani con al più un titolo secondario inferiore, del 70,5% per coloro in possesso di un titolo secondario superiore ed infine raggiunge il 77,3% per i giovani in possesso di titolo terziario (59,2%, 79,5% e 87,1% i rispettivi tassi medi europei). Anche nelle generazioni più giovani le donne registrano vantaggi occupazionali molto forti al crescere del livello di istruzione pur restando, il tasso di occupazione femminile, inferiore anche per i titoli terziari (73,7% verso l’83,4% della componente maschile).

Leggermente più contenuto, il gap di genere a sfavore delle donne anche nei tassi di occupazione dei possessori di titoli terziari si registra altresì nella media europea e in tutti i più grandi paesi dell’Unione.

Il tasso di occupazione dei laureati 30-34enni nelle diverse aree disciplinari è così distribuito: medicina e farmacia 84,3%, ambito scientifico e tecnologico (le cosiddette lauree STEM) 81,3%, area socio-economica e giuridica 75,3%, area umanistica e dei servizi 72,5% .

Esistono alcune differenze sia a livello territoriale sia di genere. Il vantaggio di una laurea in medicina e farmacia rispetto ad una laurea STEM è massimo nel Mezzogiorno, quasi nullo nel Centro e a favore delle lauree STEM nel Nord. Inoltre, per la componente femminile il vantaggio occupazionale nel conseguire una laurea in ambito scientifico e tecnologico è pari a quello maschile quando il confronto è con le lauree dell’indirizzo umanistico e persino superiore quando il confronto è con le lauree ad indirizzo socio-economico e giuridico.

 2 milioni e 189 mila giovani non occupati e non in formazione

Da diversi anni a livello europeo si è posta l’attenzione sui giovani non più inseriti in un percorso scolastico/formativo ma neppure impegnati in un’attività lavorativa: i NEET (Neither in employment nor in Education and Training). Questo collettivo è un aggregato eterogeneo per le caratteristiche e le motivazioni di base; i giovani che ne fanno parte hanno in comune “l’essere fuori” dal sistema formativo e dal mercato del lavoro ed il protrarsi di questa condizione può comportare il rischio di concreta difficoltà di reinserimento.

Nel 2017, in Italia si stima che i giovani di 15-29 anni non occupati e non in formazione siano 2 milioni e 189 mila (24,1%): il 41,0% cerca attivamente un lavoro e il 29,8% sono forze di lavoro potenziali.

La quota di NEET in Italia ha registrato un continuo aumento dall’inizio della crisi economica, raggiungendo il massimo nel 2014 (Figura 10). Il valore dell’indicatore ha poi iniziato a scendere a partire dal 2015 in concomitanza con la ripresa economica registrata anche in Italia tuttavia il valore resta ancora circa cinque punti superiore rispetto a quello del 2008 (19,3%).

La quota dei NEET resta la più elevata tra i Paesi dell’Unione e decisamente superiore non solo al valore medio Ue (13,4%), ma anche agli altri più grandi Paesi europei. Rispetto a questi ultimi, dall’inizio della crisi economica il differenziale è aumentato notevolmente (solo la Spagna ha registrato incrementi simili all’Italia, ma è stata anche molto più decisa l’inversione di tendenza degli ultimi anni).

L’incidenza dei NEET è maggiore tra coloro che posseggono un titolo secondario superiore (25,5% nel 2017) e minima tra quanti posseggono un titolo terziario (21,4%)

Nel 2008 erano, invece, più diffusi tra i giovani con basso titolo di studio. Negli anni successivi e fino al 2014, la crescita dell’aggregato – causata dalla crisi occupazionale – ha coinvolto principalmente i giovani con medio e alto titolo di studio. Nell’ultimo triennio, alla ripresa economica si affianca un deciso calo dei giovani NEET con medio e alto titolo di studio e uno più contenuto tra i giovani con al più la scuola secondaria inferiore.

Le problematicità nell’ingresso e nella permanenza dei giovani nel mercato del lavoro durante i lunghi anni della crisi economica hanno dunque inevitabilmente ampliato la quota dei giovani con medio-alti titoli di studio nella condizione di NEET, con un recupero che risulta meno deciso per i giovani diplomati e comunque ancora assolutamente insufficiente anche per i giovani laureati.

La condizione di NEET è minima tra i 15-19enni (11,9%) – in gran parte ancora studenti – fino ad arrivare al 31,5% tra i 25-29enni

Tra i NEET più giovani, 15-19enni, solo uno su due è alla ricerca, più o meno attiva, di un lavoro; ma la percentuale di coloro che vuole lavorare sale al 78,2% tra i 20-24enni ed è pari al 71,1% tra i 25-29enni.

Nelle donne è più diffusa tale condizione (26,0% contro il 22,4% degli uomini). Nonostante tra le giovani sia inferiore la quota di quelle interessate a lavorare – il 62,6% contro il 79,8% dei giovani – resta evidente anche per la maggioranza delle donne la volontà di uscire da questa condizione.

L’incidenza dei NEET è prevalente nel Mezzogiorno (34,4%), con un valore più che doppio rispetto al Nord (16,7%) e molto lontano dal valore del Centro (19,7%). Nel Mezzogiorno il gruppo dei NEET interessati a entrare o rientrare nel mercato del lavoro (77,0%) è più ampio di quello del Nord (60,8%) e del Centro (67,5%). La criticità del mercato del lavoro meridionale appare nuovamente pervasiva, tenendo ai margini sia giovani uomini sia giovani donne affatto disinteressati ad un ingresso nel mondo del lavoro.

L’incidenza dei NEET è notevolmente più elevata tra gli stranieri (34,4% contro il 23,0% degli italiani); tale differenza è dovuta quasi esclusivamente alla componente femminile (23,7% e 44,3% le rispettive quote tra le italiane e le straniere); per la componente maschile il divario di cittadinanza è praticamente nullo (1,2 punti).

 Lavora meno di un giovane su tre che ha abbandonato precocemente gli studi

Gli abbandoni precoci dal sistema di istruzione e formazione prima di raggiungere almeno un titolo di studio secondario superiore – il fenomeno degli Early Leavers from Education and Training (ELET) – riveste una grande attenzione a livello europeo, anche a causa della correlazione positiva esistente tra più elevati livelli di istruzione e maggiore inclusività nel mercato del lavoro.

Nel 2017, tra quanti abbandonano precocemente gli studi, meno di un giovane su tre lavora. Il tasso di occupazione degli ELET, ha registrato un forte calo dal 2008 – anno nel quale più di un giovane su due lavorava – fino al 2014, quando meno di un giovane su tre era occupato. Al drastico calo occupazionale associato alla crisi non si è tuttavia contrapposto, nell’ultimo triennio, alcun aumento nel tasso di occupazione di questo collettivo di giovani, a fronte della generale ripresa che si sta invece registrando nel mercato del lavoro e che sta coinvolgendo anche i giovani con più elevati titoli di studio.

Rispetto alla media europea, il tasso di occupazione degli ELET è significativamente più basso (il differenziale pari a 12,8 punti) ed inferiore rispetto agli altri grandi Paesi dell’Unione. Nel 2008 il tasso di occupazione degli ELET italiani era di poco inferiore a quello medio Ue; durante la crisi economica e fino al 2014, il calo occupazionale è stato molto più forte rispetto a quello medio Ue e, tra i più grandi Paesi, è stato inferiore solo a quello della Spagna. Peraltro, nell’ultimo triennio al mancato recupero occupazionale degli ELET in Italia si contrappongono tassi di occupazione degli stessi in netta ripresa, sia nella media Ue che negli altri grandi Paesi, con la sola eccezione della Francia.

Al drastico calo occupazionale degli ELET in Italia si è associato un altrettanto rilevante aumento della quota di coloro interessati a lavorare ovvero disoccupati e forze di lavoro potenziali: nel 2017 il 48,4% degli ELET mentre nel 2008 il 32,3%.

Tra i giovani che – abbandonati precocemente gli studi – lavorano, il tasso di occupazione è pari al 37,2% per gli uomini e scende al 22,5% per le donne. Le disparità territoriali nelle opportunità lavorative sono ampie: il tasso di occupazione è pari al 43,1% al Nord, 37,6% nel Centro e cala al 22,2% nel Mezzogiorno. La componente straniera presenta un tasso di occupazione (39,5%) più alto di quella italiana (pari al 29,4%).

 

Segnali di miglioramento nella transizione scuola-lavoro dei diplomati e dei laureati

Un indicatore utilizzato per monitorare il momento della transizione dalla scuola al lavoro è quello proposto dal Consiglio dell’Unione Europea all’interno del quadro strategico per la cooperazione nel settore dell’istruzione e della formazione (ET 2020). L’indicatore in questione è costituito dalla percentuale di occupati tra i diplomati e laureati di 20-34 anni che hanno concluso il ciclo formativo da non più di tre anni.

Tale indicatore appare particolarmente interessante anche in considerazione del fatto che il complementare di questa percentuale misura un sottoinsieme dei NEET. Questi ultimi hanno maggiori probabilità di riscattarsi da tale condizione in ragione del minor tempo intercorso dalla conclusione degli studi.

Nel 2017, in Italia, l’indicatore assume un valore pari a 55,2%; sintesi di un tasso di occupazione – nei giovani che hanno concluso il percorso di istruzione e formazione da non più di tre anni – stimato pari al 48,4% tra coloro in possesso di un titolo di studio secondario superiore e al 62,7% tra quelli con titolo di studio terziario.

I valori sono marcatamente inferiori a quelli medi Ue28 (rispettivamente pari a 80,2%, 74,1% e 84,9%) e mettono bene in luce le forti criticità nel momento della transizione dal percorso formativo al mercato del lavoro e le evidenti carenze nel raccordo tra i due mondi.

Il confronto con gli altri più grandi Paesi dell’Unione mostra un’Italia in posizione piuttosto isolata per quanto riguarda le prospettive occupazionali dei giovani all’uscita dagli studi: nel 2017, a fronte di un numero di occupati che in Italia è inferiore a cinque diplomati e di poco superiore ai sei laureati ogni dieci, nel Regno Unito ed in Germania sono occupati rispettivamente otto e nove diplomati su dieci ed in entrambi i Paesi nove laureati su dieci. Anche Francia e Spagna hanno quote di occupati significativamente superiori e le differenze con l’Italia aumentano per il titolo terziario.

Misurato come il tasso di occupazione della popolazione di 20-34 anni che ha ottenuto un titolo di studio secondario superiore o un titolo di studio terziario da uno a tre anni prima del momento della rilevazione e che, al tempo dell’indagine, non segue alcun ulteriore programma di istruzione o formazione. Come obiettivo per il 2020 è stato prefissato il raggiungimento del valore medio europeo dell’82% di occupati.

In Italia, il collettivo di riferimento dell’indicatore è di circa un milione di individui: 530 mila diplomati e 475 mila laureati; rispettivamente il 10% e 23,3% della stessa generazione di diplomati e di laureati. La restante parte della generazione è rappresentata da giovani che hanno smesso di studiare da oltre tre anni o da meno di uno (il 60,0% ed il 45,6% dei diplomati e dei laureati) o sono ancora in istruzione o formazione (tre giovani su dieci circa in entrambi i collettivi).

Gli indicatori dell’istruzione

In generale, livelli più elevati di istruzione sono associati a migliori opportunità di lavoro, retribuzioni più elevate, migliori condizioni sanitarie e maggiore impegno sociale dell’individuo, con ricadute positive sulla crescita economica e sull’intera collettività.

 Molto inferiore alla media europea la quota di popolazione con almeno un diploma

La quota di popolazione di 25-64 anni con almeno un titolo di studio secondario superiore è il principale indicatore per valutare il livello di istruzione formale conseguito in un Paese. Il diploma è infatti considerato il livello minimo indispensabile per acquisire le competenze di base richieste nella società attuale e ragionevolmente anche nella futura.

In Italia, nel 2017 la quota di 25-64enni con almeno un titolo di studio secondario superiore è ancora piuttosto contenuta (60,9%, +0,8 punti rispetto al 2016) e molto inferiore a quella media europea (77,5%, +0,6 punti rispetto all’anno precedente) . Su questa forte differenza incide la bassa quota di 25-64enni con un titolo di studio terziario (18,7%, +1,0 punti rispetto all’anno precedente), che è poco più della metà del rispettivo valore europeo (31,4%, +0,7 punti rispetto all’anno precedente). Tra il 2008 e il 2017, la quota di popolazione con almeno un titolo secondario superiore è cresciuta in Italia più della media europea, circa 8 punti, mentre quella di chi ha un titolo terziario è aumentata meno: +4,4 punti contro +7,2 punti.

Una peculiarità che, tra i maggiori paesi europei, accomuna Italia e Spagna è il marcato vantaggio delle donne nei livelli di istruzione secondaria: 63,0% contro 58,8% le quote, di donne e uomini, con almeno il diploma di scuola secondaria superiore) nel nostro Paese a fronte di una sostanziale parità nella media Ue. Sul fronte del titolo di studio terziario il vantaggio femminile si riscontra anche nella media europea, sebbene in Italia sia molto più accentuato (21,5% e 15,8% le quote femminili e maschili). I livelli di istruzione femminile sono peraltro aumentati nel tempo più velocemente sia per i titoli secondari superiori che per quelli terziari.

Il gap nei livelli di istruzione è molto ampio guardando la cittadinanza delle persone. Tra gli stranieri solo il 47,7% possiede almeno il diploma di scuola secondaria superiore (o equivalente) contro il 62,5% degli italiani mentre il 12,1% ha conseguito un titolo terziario a fronte del 19,5% registrato per gli italiani

Dal 2008 al 2014 in Italia l’indicatore passa dal 65,2% al 45,0%  a testimonianza di un gravissimo deterioramento del quadro occupazionale giovanile. Rispetto ai coetanei europei, il peggioramento delle prospettive occupazionali dei giovani italiani al termine dei percorsi di istruzione e formazione, dovuto alla crisi, è stato molto più marcato ed il differenziale con l’Europa è quasi raddoppiato, passando dai 16,9 punti del 2008 ai 31 punti del 2014.

Nel triennio 2014-2017 si è registrata una decisa inversione di tendenza: l’aumento del tasso di occupazione dei giovani usciti più di recente dagli studi (+10,2 punti in tre anni) è più sostenuto rispetto a quello medio europeo (+4,2) e rispetto a quanto registrato nei maggiori Paesi europei.

L’accentuazione delle difficoltà di ingresso nel mercato del lavoro, dovuta alla crisi, è stata fortissima sia nei diplomati che nei laureati. Dal 2008 al 2014 il tasso di occupazione dei primi è sceso dal 60,4% al 38,3% e nei secondi dal 70,5% al 52,9%. Anche l’aumento del divario Italia-Europa è stato molto forte e nel 2014 quest’ultimo era pari +32,4 punti nei diplomati e a +27,6 punti nei laureati. 

Nell’ultimo triennio il miglioramento degli indicatori occupazionali dei giovani usciti più di recente dagli studi, più deciso rispetto a quello medio europeo – per entrambi i collettivi – ha consentito di osservare per la prima volta dall’inizio della crisi una riduzione del divario Italia-Europa. Nonostante questi miglioramenti i tassi di occupazione restano marcatamente bassi e ancora di molto inferiori ai livelli pre-crisi, sia per i diplomati che per i laureati.

A livello territoriale la perdita occupazionale tra i giovani in transizione dalla scuola al mondo del lavoro ha riguardato tutte le tre ripartizioni geografiche, sebbene per i diplomati l’intensità è stata maggiore al Centro-Nord e per i laureati leggermente maggiore nel Mezzogiorno (Figura 14). Anche la ripresa occupazionale dell’ultimo triennio è ripartita nelle diverse aree del Paese, tuttavia per i diplomati è stata più accentuata nel Nord e nel Centro (+13,8 e +9,8 punti) rispetto al Mezzogiorno (+5,8 punti); mentre per i laureati più nel Mezzogiorno (10,3 punti) che al Nord ed al Centro (9,4 e 7,4 punti). 

Restano enormi i differenziali tra Nord e Mezzogiorno anche per i titoli di studio più elevati, indice di come la struttura produttiva del Mezzogiorno appare incapace di assorbire anche l’offerta di lavoro più qualificata, nonostante la presenza di una minore quota di laureati e diplomati.

Nel 2017, il tasso di occupazione da uno a tre anni dalla laurea è pari al 76,4% nel Nord e solo del 43,7% nel Mezzogiorno; il rispettivo tasso da uno a tre anni dal diploma è pari al 65,3% nel Nord e scende a meno della metà, 30,5%, nel Mezzogiorno.

 L’analisi per genere evidenzia, a fronte di una perdita occupazionale dal 2008 al 2014 maggiore per i giovani uomini, in particolare diplomati, come la ripresa dell’ultimo triennio abbia coinvolto maggiormente la componente maschile diplomata, mentre si registrano maggiori opportunità occupazionali per le giovani laureate. Anche nelle generazioni più giovani e tra coloro che stanno per entrare nel lavoro, i divari di genere a sfavore delle donne nelle prospettive occupazionali si attenuano all’aumentare del titolo di studio posseduto. Il tasso di occupazione dei 20-34enni usciti da non più di tre anni dagli studi è di circa 11 punti inferiore nelle donne diplomate rispetto ai pari uomini e solo 3 punti inferiore nelle donne laureate (nella media europea i rispettivi differenziali di genere sono invece piuttosto simili e pari a circa 5 punti).