Primo maggio in Calabria: il problema dei disoccupati di lungo periodo. E’ questo il titolo dell’analisi pubblicata da Open Calabria a firma di Francesco Bruno. La fotografia, fatta da Bruno, racconta come gli ultimi dati pubblicati da Eurostat sulla disoccupazione nelle regioni dell’Unione europea, relativi all’anno 2017, offrono nuovi spunti di riflessione sul mercato del lavoro calabrese. “Il quadro generale – si legge nell’articolo di Open – resta molto preoccupante, nonostante si ravvisi qualche elemento positivo. Dopo una breve disamina dei dati Eurostat, nel prosieguo l’attenzione verrà rivolta al problema della disoccupazione di lungo periodo ed a come si possa tentare di alleviarlo attraverso le politiche attive del lavoro. In ultimo, si esaminerà una recente misura di politica attiva varata dalla Regione Calabria”.

L’articolo offre poi un’analisi specifica, di seguito riportata, sui dati con focus specifici su i disoccupati di lungo termine, le politiche attive del lavoro, il Bando Dote Lavoro della Regione Calabria e, quindi, le conclusioni.

I dati. La disoccupazione italiana si è attestata all’11,2%, in diminuzione di uno 0,5% rispetto all’anno precedente, ma superiore rispetto alla media pari al 7,6%. Le differenze infra-regionali restano marcate, passando da un minimo del 3,1% nella Provincia Autonoma di Bolzano al 21,6% della Calabria. Una forbice del 18,5% (in Germania la forbice è del 5%). Si segnala comunque un miglioramento rispetto al 2016, quando la forbice italiana era pari al 19,5%. La situazione è migliorata proprio grazie alla Calabria, che ha fatto registrare la diminuzione più importante del Mezzogiorno dopo la Sardegna. Passando ai dati della disoccupazione giovanile (fascia di età 15-24), l’Italia migliora rispetto all’anno precedente, dal 37,8 al 34,7%, ben lontana comunque dalla media UE (16,8%). Le differenze all’interno del Belpaese sono ancora più accentuate. Il Mezzogiorno presenta ben tre regioni nella poco invidiabile classifica di quelle a più alto tasso di disoccupazione giovanile: Calabria al quinto posto (55,6%), Campania al settimo (54,7%), Sicilia al decimo (52,9%). Nonostante la drammaticità del dato, anche in questo caso la Calabria migliora rispetto all’anno precedente. Ultimo dato rilevante riguarda la disoccupazione di lungo periodo (“LTU”), che misura la percentuale di persone disoccupate da almeno dodici mesi. A livello nazionale si assiste ad un peggioramento, dal 57,4 al 57,9% (media UE 45%). La Calabria fa registrare il peggioramento più consistente dopo il Molise, passando dal 63,9 al 68,1%.

I disoccupati di lungo termine Secondo i nuovi dati pubblicati da Istat nel rapporto “Noi Italia”, nel 2008 il tasso LTU calabrese era al 50,5%. Da allora ha raggiunto un primo picco nel 2014 (67,2%), poi è sceso nei due anni successivi e adesso ha raggiunto il summenzionato livello del 68,1%. Nel 2008 la Calabria faceva meglio della media del Mezzogiorno (le peggiori erano Sicilia, Campania e Basilicata), nel 2017 ha fatto peggio. Se passiamo dal totale alle distinzioni di genere, si evince il peggioramento della situazione degli uomini (dal 49,7% del 2008 al 70,2% del 2008) rispetto a quella delle donne (dal 51,3% del 2008 al 65,3% del 2017). Il dato va sicuramente letto insieme al tasso di occupati calabresi irregolari che, con il suo 23,2% (dato 2015) è il più alto d’Italia (media Italia 13,5%, media Mezzogiorno 19,3%). Ma non possiamo fermarci ad esso, perché si tratta di un dato tutto sommato costante nel tempo (20,9% nel 2008).  Il problema è, comunque, di rilevanza europea. Si consideri ad esempio che anche la Germania ha un preoccupante tasso di LTU molto elevato (41,7%), con diverse regioni che superano il 50%.

Le politiche attive del lavoro. In un e-book a cura di VoxEU.org (portale del “Centre for Economic Policy Research” o “CEPR”), viene analizzato (capitolo 2) il ruolo delle politiche attive del lavoro (“ALMP”), una voce che racchiude l’insieme di misure, programmi, iniziative, incentivi etc. finalizzati all’inserimento o al reinserimento nel mondo del lavoro (al contrario le politiche passive prevedono l’erogazione di un beneficio economico per chi non ha o ha perso il lavoro, come ad esempio le indennità di disoccupazione).

Dall’articolo di Open si evince che alcuni Paesi, come l’Italia, la Spagna e il Portogallo, avevano nel 2013 alti tassi di LTU e bassa spesa in ALMP, mentre l’opposto accadeva in Danimarca, Svezia e Finlandia

Atri Paesi, come Francia, Irlanda e Germania, mostravano sia una spesa in ALMP sia una disoccupazione di lungo termine sopra la media. Secondo gli autori del capitolo, per quanto di interesse in questa sede, le politiche attive hanno un effetto positivo maggiore per gli LTU rispetto agli altri gruppi di disoccupati. Con il Decreto Legislativo n. 150/2015 anche l’Italia si è dotata di una normativa volta ad implementare un sistema di politiche attive del lavoro. Tuttavia, dopo la bocciatura del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, si è attualmente in una lenta fase di riassestamento che prevede un maggior coinvolgimento delle Regioni rispetto all’idea originaria di accentramento dei poteri in capo all’Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro (“Anpal”).

Il sistema presenta ancora diverse lacune, ma beneficia dell’argomento giustificativo della fase di transizione (speriamo non duri in eterno, essendo già passato più di un anno dal citato referendum)

Naturalmente, per poter funzionare efficacemente, le politiche attive devono essere ben costruite e necessitano di servizi pubblici e privati che siano in grado di favorire l’inserimento o il reinserimento dei disoccupati. Un ruolo importante dovrebbe in teoria essere giocato dai centri per l’impiego (“CPI”), ma è nota la loro scarsa efficienza e bassa produttività.  Ci si aspetterebbe un monitoraggio costante degli stessi, ma di contro i dati sembrano latitare. Si può infatti rimandare al pezzo di Capristo e Drammis pubblicato da Open Calabria per capire l’inadeguatezza strutturale dei servizi pubblici per l’impiego in Calabria. Anche a livello nazionale le cose non vanno molto meglio, dato che i lavori intermediati dai CPI risultano inferiori al 4% del totale (Indagine Isfol Plus 2014)”.

Il Bando Dote Lavoro della Regione Calabria Muovendo dalla teoria alla pratica, esaminiamo brevemente un esempio di politiche attive della Regione Calabria, il cosiddetto “Bando Dote Lavoro , che ha tra gli obiettivi quello di “Favorire l’inserimento lavorativo e l’occupazione dei disoccupati di lunga durata e dei soggetti con maggiore difficoltà di inserimento lavorativo, nonché il sostegno delle persone a rischio di disoccupazione di lunga durata”. Cerchiamo di capire se la misura è stata costruita in maniera funzionale al raggiungimento di un tale obiettivo. È rivolta a soggetti disoccupati che hanno compiuto i trent’anni o a categorie particolari di maggiorenni (nel prosieguo si farà riferimento solo ai disoccupati “ordinari” over 30).

Gli interessati devono innanzitutto recarsi presso un CPI per la presa in carico e per la firma del cosiddetto patto di servizio personalizzato

Sempre i CPI -al fine di individuare i casi più critici- provvederanno ad elaborare l’indice di svantaggio e la corrispondente classe di svantaggio del soggetto (bassa; medio-bassa; medio-alta; alta). Quest’ultima determinerà anche il budget assegnato al disoccupato.

Dopo questa prima fase, il soggetto si recherà presso uno degli operatori accreditati dalla Regione Calabria, che eseguirà per suo conto la domanda di dote per l’erogazione dei servizi concordati in un Piano d’intervento personalizzato (“PIP”). Così come avviene per la misura nazionale dell’assegno di ricollocazione , anche per la Dote calabrese non è il disoccupato che incasserà direttamente il budget, ma l’operatore accreditato. Sulla base del PIP, avverrà l’erogazione in favore del soggetto di a) servizi per il lavoro; b) voucher di formazione; c) tirocini/indennità di partecipazione. Le misure non sono alternative tra loro, in quanto l’unico limite è rappresentato dal budget assegnato al soggetto. I servizi per il lavoro attivabili si dividono in tre aree, riassunte nella seguente tabella.

Poi ci sono i voucher formativi, che mirano al conseguimento di una qualifica professionale o all’acquisizione di certificazioni. In ultimo i tirocini formativi per le classi di svantaggio medio-alto e alto, con indennità di partecipazione pari a 400 euro mensili (lordi).

Menzionati gli elementi essenziali della politica attiva, torniamo al problema degli LTU. Si presume che i disoccupati di lungo termine dovrebbero finire nella classe di svantaggio medio-alta o alta ed avere, quindi, un budget spendibile più elevato. Tuttavia, se i servizi B1, B2 e B3 o i voucher formativi potrebbero aver luogo anche per gli LTU (richiedendo a tal uopo stringenti controlli da parte della Regione per prevenire facili abusi), sussistono più dubbi in merito all’accesso degli LTU a forme di tirocinio o -soprattutto- al successo della misura D2 di accompagnamento al lavoro: perché un’impresa dovrebbe scegliere loro?

Qual è la convenienza economica per l’impresa di assumere un LTU, notoriamente più problematico? Può bastare il corso di formazione o una nuova qualifica professionale?

Esaminiamo lo schema di incentivi. L’operatore accreditato ha un interesse economico nel cercare di favorire le misure B3 e D2  e sa che verrà retribuito a risultato raggiunto. Anche il disoccupato potrebbe essere incentivato, ma solo nel caso in cui non benefici di altri sussidi pubblici (trappola della povertà).

Non si rinvengono incentivi per le imprese. Queste ultime, infatti, potrebbero trovare più conveniente l’Incentivo Occupazione Mezzogiorno 2018 , con sgravi contributivi di dodici mesi per ogni soggetto assunto. Per tale ultimo incentivo è sufficiente che il soggetto da assumere non abbia lavorato negli ultimi sei mesi (una platea di scelta molto meno problematica). La scelta tra gli incentivi disponibili potrebbe giocare a sfavore degli LTU, isolandoli ulteriormente

Conclusioni Occorre tener presente che, in generale, tutte le politiche attive hanno un tasso elevato di fallimento, perché tendono a dirottare le risorse verso chi non ne avrebbe bisogno. I disoccupati LTU ne avrebbero bisogno invece, ma raramente riescono ad intercettare i benefici. In attesa dei risultati, appare abbastanza intuitivo che i disoccupati di lungo periodo dovrebbero essere trattati separatamente, con incentivi ad hoc che si differenzino da quelli già presenti sul mercato in virtù di altre misure nazionali o regionali. Non è un lavoro semplice, ma urge un cambio di passo della Regione in tal senso. Nel frattempo è lecito auspicare che ci possa essere un monitoraggio periodico (e pubblicamente accessibile) dei risultati della Dote, sul modello di quanto fa ad esempio la Regione Lombardia. I dati e le analisi degli stessi sono infatti una componente essenziale per disegnare buone policy e per dimostrare trasparenza nei confronti dei cittadini sull’uso di risorse pubbliche.

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