“Gli effetti del conflitto potranno essere significativi e colpire l’economia italiana attraverso canali diretti e indiretti. Un’economia che già prima del conflitto mostrava segni di indebolimento a causa della caduta della domanda interna: credit crunch e perdita di potere d’acquisto hanno fiaccato investimenti delle imprese e consumi delle famiglie”.

Lo dichiara il segretario generale di Competere.Eu Roberto Race nel presentare l’analisi congiunturale di ottobre del think tank sull’andamento dell’economia italiana.
“I dati congiunturali dell’ultimo mese – spiega Race – tracciano un quadro a tinte fosche per l’economia italiana e internazionale. Un quadro che si tinge di scuro a causa del conflitto Israelo-palestinese, che causa morti e sofferenza, oltre che ricadute economiche.
Dal punto di vista prettamente economico, l’impatto del conflitto Israelo-Palestinese sull’economia italiana non è ancora valutabile dal punto di vista quantitativo, ma i canali di trasmissione sono sia diretti che indiretti. Per quanto riguarda i primi, il canale principale potrebbe essere quello del commercio tra i due Paesi: nel 2022 l’interscambio commerciale tra Italia e Israele valeva circa 4,8 miliardi di euro (con un saldo positivo per 2,3 miliardi di euro), con export concentrate prevalentemente in macchinari e apparecchiature, prodotti alimentari e gomma-plastica; mentre l’import da Israele è rilevante per i prodotti chimici e l’elettronica.
Gli effetti di second round, cioè indiretti, avverrebbero in particolare attraverso gli aumenti dei prezzi dei beni energetici, specie il gas, di cui l’Italia è ancora fortemente dipendente, e le tensioni internazionali che generano impatti sulla crescita globale, attraverso un rallentamento del commercio internazionale e degli investimenti. Inoltre, poiché Israele è tra i principali produttori al mondo di microchip avanzati, ci potrebbero essere ricadute significative sulla catena globale dei semiconduttori, come già avvenuto negli anni scorsi per altre ragioni, con conseguenze economiche rilevanti in svariati settori.
Dal giorno di inizio del conflitto- scrive Race- il prezzo del gas è aumentato di quasi il 30% (da 38 euro a 49 euro per Mwh), a causa sia della decisione di Israele di interrompere l’estrazione dal giacimento offshore Tamar, che esporta gas verso l’Egitto e la Giordania (oltre a sostenere i consumi domestici di Israele), sia del sabotaggio del gasdotto sottomarino tra Estonia e Finlandia, oltre che per l’incertezza sulle possibilità di garantire le forniture nei prossimi mesi. L’interruzione dell’estrazione da Tamar, se prolungata, rischia di avere ripercussioni sull’export del gas naturale liquefatto (GNL) egiziano in Europa (6 miliardi di m3 nel 2022), tenuto conto che quel giacimento rappresenta circa l’1,5% dell’offerta mondiale.
Gli effetti sui prezzi al consumo potrebbero essere modesti per ora, poiché siamo lontani dai picchi raggiunti nell’agosto del 2022, quando il prezzo del gas aveva superato i 350 euro per Mwh. Tuttavia, incrementi dei prezzi dei beni energetici, incluso il petrolio (che però attualmente mantiene una certa stabilità), sono possibili, specie in caso di allargamento del conflitto nell’area mediorientale. Secondo Nomisma il prezzo del petrolio, in caso di coinvolgimento diretto di Arabia e Iran, potrebbe raggiungere i 2,5 dollari a litro e i 150 dollari al barile, dagli attuali 90 dollari”.

Il rischio di escalation genera nuova incertezza
“Le tensioni geopolitiche e il rischio di escalation- spiega Race nella nota congiunturale di Competere.Eu– stanno già generando nuova incertezza e rischiano di fare deragliare l’economia globale, in un momento in cui la crescita procede a macchia di leopardo.
Ci sono, infatti, alcuni Paesi come gli USA che continuano, nonostante i tassi di policy più elevati degli ultimi 22 anni (in un range compreso tra 5,25% e 5,50%), a mostrare un tasso di espansione significativo, 2% annualizzato negli ultimi tre trimestri. Per questa ragione il board della FED non mostra la volontà di arretrare sulle strategie di politica monetaria e si attende un ulteriore aumento dei tassi nei prossimi mesi.
In Cina la crisi immobiliare e la fine del rimbalzo post-Covid, secondo la Banca Mondiale freneranno la crescita del PIL nel 2024, portandola al 4,4% (dal 5,1% del 2023); è un ritmo particolarmente basso rispetto al decennio pre-pandemia (quando era intorno al 6% medio annuo). In prospettiva pesa anche la dinamica demografica. Il rallentamento cinese, naturalmente, impatta sull’intera regione, la quale per ogni punto in meno di crescita del dragone subisce un impatto di -0,3 punti percentuali (stime Banca Mondiale). Anche il commercio mondiale ne risente, essendo la Cina uno dei principali esportatori globali, con una quota del 14%.
Il rallentamento, invece, si sta manifestando con particolare ampiezza in Europa, dove la Germania è osservata speciale. L’economia tedesca secondo il Fondo Monetario Internazionale è attesa arretrare dello 0,5% quest’anno”.

Aumentano i rischi al ribasso sull’andamento dell’economia italiana nel breve periodo
“Per l’Italia il Fondo Monetario Internazionale -scrive Race-  ha tagliato le stime di crescita sia per il 2023 che per il 2024, quando il PIL è atteso avanzare dello 0,7% in ciascun anno, con un taglio, rispettivamente, pari allo 0,4% e allo 0,2% dalle previsioni pubblicate a luglio scorso. Anche la Banca d’Italia, nel bollettino economico di ottobre, ha rivisto ampiamente al ribasso la dinamica del PIL italiano: +0,7% quest’anno e +0,8% il prossimo, con una revisione al ribasso di 0,6 punti per il 2023 e di 0,2 per il 2024.
Sono entrambe stime più pessimistiche rispetto a quanto il Governo ha indicato nella NADEF (PIL +0,8% quest’anno e +1,2% il prossimo) e ciò non depone bene. Se si realizzasse una crescita del PIL più bassa rispetto a quanto atteso del Governo, si avrebbero implicazioni significative su deficit e debito, oltre che potrebbe avere ricadute reputazionali per il nostro Paese, un aspetto decisivo per potere “piazzare” presso investitori stranieri i nostri titoli di Stato, in un contesto in cui la BCE ha smesso di acquistarli. Come già detto, la differenza viene sostanzialmente dalla capacità di realizzare nei tempi giusti e in maniera efficiente il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
Quindi, almeno per il 2023 la tendenza degli indicatori congiunturali nel secondo semestre è coerente con una sostanziale stagnazione della crescita, per cui la dinamica del PIL italiano – nella migliore delle ipotesi – dovrebbe attestarsi per la media di quest’anno su un incremento dello 0,7%, in linea con la variazione acquisita fino al secondo trimestre.
Nell’ultimo mese -spiega Race-  gli indicatori di fiducia in Italia hanno mostrato un nuovo peggioramento, con l’indice di fiducia delle famiglie passato da 106,5 di agosto a 105,4 di settembre e quello composito delle imprese sceso a 106,7, da 104,9. Tra i consumatori sono emersi giudizi negativi sulla situazione economica generale mentre, per le imprese, in tutti i comparti si è rilevata una riduzione dell’indice di fiducia, ad eccezione delle costruzioni. Che sorprendono per il cauto ottimismo, in un contesto nel quale sul Superbonus e sugli altri incentivi la situazione non è molto chiara. Quello che conta, evidentemente, è il PNRR e le risorse impiegate per il settore edile, che sono ingenti (direttamente e indirettamente sono circa 100 miliardi, secondo ANCE).
Nel manifatturiero, invece, come anche sostenuto da Confindustria, la situazione appare ancora fragile. La produzione in agosto è cresciuta dello 0,2% su luglio (-4,2% su agosto 2022); un aumento non sufficiente a compensare il calo di -0,9% registrato nel mese precedente ma lascia, comunque, l’output in rotta per una sostanziale stagnazione nel 3° trimestre, dopo quattro trimestri consecutivi di contrazione. Difficile che ci sia una svolta positiva nei mesi autunnali. Un dato su tutti spiega questa affermazione: il progressivo incremento delle scorte a fronte di un peggioramento dei giudizi sulla produzione. L’interpretazione di queste due dinamiche porta a sostenere che la domanda sta scendendo più velocemente di quanto gli imprenditori si attendono e ciò comporta un aumento delle scorte e un conseguente deterrente a produrre nei prossimi mesi, fino a quando le scorte non rientrino su livelli ragionevoli.
Restano i servizi a potere sostenere la crescita o la tenuta dell’economia italiana. Se durante l’estate qualche segnale positivo era venuto, soprattutto dal turismo, l’autunno non è partito con il migliore abbrivio. Il PMI (Purchasing Manager Index) dei servizi – un indicatore mensile prodotto da Standard and Poor’s che monitora lo stato di salute del comparto terziario – in settembre è sceso sotto la soglia di 50, indicando così una lieve contrazione, soprattutto per gli accresciuti costi. Se viene meno il sostegno del terziario – e con un manifatturiero estremamente debole – allora si va incontro ad una contrazione del PIL alla fine dell’anno che avrebbe ricadute significative anche sulla dinamica della crescita nel prossimo anno”.

Tra gli aspetti che potranno dare un contributo positivo per Competere.EU c’è la decelerazione dell’inflazione.

“A fine mese – scrive  Race – verranno diffuse le stime preliminari sull’andamento dei prezzi al consumo in ottobre. Si potrà osservare una forte decelerazione, spiegata prevalentemente da effetti base (ovvero dal fatto che la variazione annua dei prezzi si calcola con un indice che nell’ottobre del 2022 era rimbalzato a causa dei forti aumenti delle quotazioni del gas tra agosto e settembre). Ciò potrebbe portare a una correzione di almeno due punti percentuali, portando l’inflazione al di sotto della soglia del 3%, dal 5,4% attuale. Anche nei prossimi due mesi potrebbe confermarsi questa tendenza. Sarebbe un sollievo pur nella consapevolezza che i livelli dei prezzi sono comunque più elevati di circa il 18% rispetto a quelli pre-pandemia. E ciò significa, specie per le famiglie meno benestanti, un forte arretramento del potere d’acquisto, aspetto che richiede un impegno deciso da parte del Governo che già nella Nadef ha destinato risorse a sostegno dei redditi delle famiglie.
In conclusione, l’incertezza -conclude Race- è estremamente elevata e si è accresciuta nell’ultimo mese. Non è facile prevedere la direzione verso la quale si orienterà l’economia italiana; di certo i rischi sono al ribasso e il buon senso richiede un monitoraggio continuo da parte dei policy makers per potere programmare risposte adeguate a situazioni che potranno rapidamente peggiorare”.
Segue la nota congiunturale:

Competere.EU:   La congiuntura italiana e internazionale alla prova del conflitto in Medio Oriente

I dati congiunturali dell’ultimo mese tracciano un quadro a tinte fosche per l’economia italiana e internazionale. Un quadro che si tinge di scuro a causa del conflitto Israelo-palestinese, che causa morti e sofferenza, oltre che ricadute economiche.

Canali d’impatto del conflitto Israelo-Palestinese sull’economia italiana
Dal punto di vista prettamente economico, l’impatto del conflitto Israelo-Palestinese sull’economia italiana non è ancora valutabile dal punto di vista quantitativo, ma i canali di trasmissione sono sia diretti che indiretti.
Per quanto riguarda i primi, il canale principale potrebbe essere quello del commercio tra i due Paesi: nel 2022 l’interscambio commerciale tra Italia e Israele valeva circa 4,8 miliardi di euro (con un saldo positivo per 2,3 miliardi di euro), con export concentrate prevalentemente in macchinari e apparecchiature, prodotti alimentari e gomma-plastica; mentre l’import da Israele è rilevante per i prodotti chimici e l’elettronica. Gli effetti di second round, cioè indiretti, avverrebbero in particolare attraverso gli aumenti dei prezzi dei beni energetici, specie il gas, di cui l’Italia è ancora fortemente dipendente, e le tensioni internazionali che generano impatti sulla crescita globale, attraverso un rallentamento del commercio internazionale e degli investimenti. Inoltre, poiché Israele è tra i principali produttori al mondo di microchip avanzati, ci potrebbero essere ricadute significative sulla catena globale dei semiconduttori, come già avvenuto negli anni scorsi per altre ragioni, con conseguenze economiche rilevanti in svariati settori.
Dal giorno di inizio del conflitto il prezzo del gas è aumentato di quasi il 30% (da 38 euro a 49 euro per Mwh), a causa sia della decisione di Israele di interrompere l’estrazione dal giacimento offshore Tamar, che esporta gas verso l’Egitto e la Giordania (oltre a sostenere i consumi domestici di Israele), sia del sabotaggio del gasdotto sottomarino tra Estonia e Finlandia, oltre che per l’incertezza sulle possibilità di garantire le forniture nei prossimi mesi. L’interruzione dell’estrazione da Tamar, se prolungata, rischia di avere ripercussioni sull’export del gas naturale liquefatto (GNL) egiziano in Europa (6 miliardi di m3 nel 2022), tenuto conto che quel giacimento rappresenta circa l’1,5% dell’offerta mondiale.
Gli effetti sui prezzi al consumo potrebbero essere modesti per ora, poiché siamo lontani dai picchi raggiunti nell’agosto del 2022, quando il prezzo del gas aveva superato i 350 euro per Mwh. Tuttavia, incrementi dei prezzi dei beni energetici, incluso il petrolio (che però attualmente mantiene una certa stabilità), sono possibili, specie in caso di allargamento del conflitto nell’area mediorientale. Secondo Nomisma il prezzo del petrolio, in caso di coinvolgimento diretto di Arabia e Iran, potrebbe raggiungere i 2,5 dollari a litro e i 150 dollari al barile, dagli attuali 90 dollari.

Andamenti economici per aree
Le tensioni geopolitiche e il rischio di escalation stanno già generando nuova incertezza e rischiano di fare deragliare l’economia globale, in un momento in cui la crescita procede a macchia di leopardo.
Ci sono, infatti, alcuni Paesi come gli USA che continuano, nonostante i tassi di policy più elevati degli ultimi 22 anni (in un range compreso tra 5,25% e 5,50%), a mostrare un tasso di espansione significativo, 2% annualizzato negli ultimi tre trimestri. Per questa ragione il board della FED non mostra la volontà di arretrare sulle strategie di politica monetaria e si attende un ulteriore aumento dei tassi nei prossimi mesi.
In Cina la crisi immobiliare e la fine del rimbalzo post-Covid, secondo la Banca Mondiale freneranno la crescita del PIL nel 2024, portandola al 4,4% (dal 5,1% del 2023); è un ritmo particolarmente basso rispetto al decennio pre-pandemia (quando era intorno al 6% medio annuo). In prospettiva pesa anche la dinamica demografica. Il rallentamento cinese, naturalmente, impatta sull’intera regione, la quale per ogni punto in meno di crescita del dragone subisce un impatto di -0,3 punti percentuali (stime Banca Mondiale). Anche il commercio mondiale ne risente, essendo la Cina uno dei principali esportatori globali, con una quota del 14%.
Il rallentamento, invece, si sta manifestando con particolare ampiezza in Europa, dove la Germania è osservata speciale. L’economia tedesca secondo il Fondo Monetario Internazionale è attesa arretrare dello 0,5% quest’anno.

Cosa succede in Italia?
Per l’Italia il Fondo Monetario Internazionale ha tagliato le stime di crescita sia per il 2023 che per il 2024, quando il PIL è atteso avanzare dello 0,7% in ciascun anno, con un taglio, rispettivamente, pari allo 0,4% e allo 0,2% dalle previsioni pubblicate a luglio scorso. Anche la Banca d’Italia, nel bollettino economico di ottobre, ha rivisto ampiamente al ribasso la dinamica del PIL italiano: +0,7% quest’anno e +0,8% il prossimo, con una revisione al ribasso di 0,6 punti per il 2023 e di 0,2 per il 2024.
Sono entrambe stime più pessimistiche rispetto a quanto il Governo ha indicato nella NADEF (PIL +0,8% quest’anno e +1,2% il prossimo) e ciò non depone bene. Se si realizzasse una crescita del PIL più bassa rispetto a quanto atteso del Governo, si avrebbero implicazioni significative su deficit e debito, oltre che potrebbe avere ricadute reputazionali per il nostro Paese, un aspetto decisivo per potere “piazzare” presso investitori stranieri i nostri titoli di Stato, in un contesto in cui la BCE ha smesso di acquistarli. Come già detto, la differenza viene sostanzialmente dalla capacità di realizzare nei tempi giusti e in maniera efficiente il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
Quindi, almeno per il 2023 la tendenza degli indicatori congiunturali nel secondo semestre è coerente con una sostanziale stagnazione della crescita, per cui la dinamica del PIL italiano – nella migliore delle ipotesi – dovrebbe attestarsi per la media di quest’anno su un incremento dello 0,7%, in linea con la variazione acquisita fino al secondo trimestre.
Nell’ultimo mese gli indicatori di fiducia in Italia hanno mostrato un nuovo peggioramento, con l’indice di fiducia delle famiglie passato da 106,5 di agosto a 105,4 di settembre e quello composito delle imprese sceso a 106,7, da 104,9. Tra i consumatori sono emersi giudizi negativi sulla situazione economica generale mentre, per le imprese, in tutti i comparti si è rilevata una riduzione dell’indice di fiducia, ad eccezione delle costruzioni. Che sorprendono per il cauto ottimismo, in un contesto nel quale sul Superbonus e sugli altri incentivi la situazione non è molto chiara. Quello che conta, evidentemente, è il PNRR e le risorse impiegate per il settore edile, che sono ingenti (direttamente e indirettamente sono circa 100 miliardi, secondo ANCE).
Nel manifatturiero, invece, come anche sostenuto da Confindustria, la situazione appare ancora fragile. La produzione in agosto è cresciuta dello 0,2% su luglio (-4,2% su agosto 2022); un aumento non sufficiente a compensare il calo di -0,9% registrato nel mese precedente ma lascia, comunque, l’output in rotta per una sostanziale stagnazione nel 3° trimestre, dopo quattro trimestri consecutivi di contrazione. Difficile che ci sia una svolta positiva nei mesi autunnali. Un dato su tutti spiega questa affermazione: il progressivo incremento delle scorte a fronte di un peggioramento dei giudizi sulla produzione. L’interpretazione di queste due dinamiche porta a sostenere che la domanda sta scendendo più velocemente di quanto gli imprenditori si attendono e ciò comporta un aumento delle scorte e un conseguente deterrente a produrre nei prossimi mesi, fino a quando le scorte non rientrino su livelli ragionevoli.
Restano i servizi a potere sostenere la crescita o la tenuta dell’economia italiana. Se durante l’estate qualche segnale positivo era venuto, soprattutto dal turismo, l’autunno non è partito con il migliore abbrivio. Il PMI (Purchasing Manager Index) dei servizi – un indicatore mensile prodotto da Standard and Poor’s che monitora lo stato di salute del comparto terziario – in settembre è sceso sotto la soglia di 50, indicando così una lieve contrazione, soprattutto per gli accresciuti costi. Se viene meno il sostegno del terziario – e con un manifatturiero estremamente debole – allora si va incontro ad una contrazione del PIL alla fine dell’anno che avrebbe ricadute significative anche sulla dinamica della crescita nel prossimo anno.

Tra gli aspetti che potranno dare un contributo positivo, c’è però la decelerazione dell’inflazione.

A fine mese verranno diffuse le stime preliminari sull’andamento dei prezzi al consumo in ottobre. Si potrà avere una forte decelerazione, spiegata prevalentemente da effetti base (ovvero dal fatto che la variazione annua dei prezzi si calcola con un indice che nell’ottobre del 2022 era rimbalzato a causa dei forti aumenti delle quotazioni del gas tra agosto e settembre). Ciò potrebbe portare a una correzione di almeno due punti percentuali, portando l’inflazione al di sotto della soglia del 3%, dal 5,4% attuale. Anche nei prossimi due mesi potrebbe confermarsi questa tendenza. Sarebbe un sollievo pur nella consapevolezza che i livelli dei prezzi sono comunque più elevati di circa il 18% rispetto a quelli pre-pandemia. E ciò significa, specie per le famiglie meno benestanti, un forte arretramento del potere d’acquisto, aspetto che richiede un impegno deciso da parte del Governo che già nella Nadef ha destinato risorse a sostegno dei redditi delle famiglie.
In conclusione, l’incertezza è estremamente elevata e si è accresciuta nell’ultimo mese. Non è facile prevedere la direzione verso la quale si orienterà l’economia italiana; di certo i rischi sono al ribasso e il buon senso richiede un monitoraggio continuo da parte dei policy makers per potere programmare risposte adeguate a situazioni che potranno rapidamente peggiorare.
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