Vittorio Daniele

I dati emersi dall’ultimo Rapporto Svimez hanno acceso il dibattito. Tante le analisi, diversi i punti di vista. Per capirne un po’ di più abbiamo chiesto aiuto a Vittorio Daniele, professore ordinario di Politica economica all’Università Magna Graecia di Catanzaro, dove insegna anche Economia dello Sviluppo. La sua attività di ricerca riguarda, tra l’altro, i divari regionali in Italia.

Quali sono i dati più rilevanti, per l’economia meridionale e calabrese, diffusi dalla Svimez?

“Secondo le stime, nel 2017, la crescita del Pil nel Mezzogiorno è stata dell’1,4%. Un valore lievemente inferiore a quello del Centro-Nord. Nel complesso, l’Italia cresce a tassi inferiori delle principali economie europee, come Francia e Germania. Più di questi paesi, però, l’Italia ha accusato gli effetti della crisi degli anni scorsi.

Tra il 2008 e il 2014, il Pil nazionale è diminuito di 8,5 punti percentuali. Data la bassa crescita, la produzione italiana non è ancora tornata ai livelli pre-crisi. Nel Mezzogiorno, la crisi ha avuto un effetto maggiore che nel resto del Paese: negli anni di recessione, il Pil si è ridotto di ben 13 punti percentuali.

Dato l’arretramento subito, la crescita è un lento, faticoso recupero dei livelli produttivi precedenti. Recupero che, è bene sottolinearlo, deve ancora compiersi. L’anno scorso la Calabria è cresciuta del 2%. Più delle altre regioni meridionali.

Tra il 2015 e il 2017, la crescita del Pil regionale è stata di 4 punti percentuali. Nel triennio, la crescita è stata trainata dalle costruzioni (12%), anche per effetto delle opere pubbliche realizzate con i Fondi europei, dall’agricoltura (+7,9%) e dall’industria in senso stretto (+6,9%).

Dati certamente positivi, che vanno considerati alla luce della forte caduta della produzione registrata negli anni precedenti. Tra il 2008 e il 2014 il Pil calabrese è diminuito, complessivamente, del 14%.

In altre parole, i passi in avanti sono un parziale recupero delle perdite subite negli anni scorsi. La situazione occupazionale, come nelle altre regioni del Mezzogiorno, rimane preoccupante. I tassi di disoccupazione sono ancora elevati mentre la precarietà dilaga. In tutto il Mezzogiorno, l’incremento dell’occupazione è dovuto ai contratti a termine. Più che di occupazione bisognerebbe parlare di sottoccupazione.

Che vi sia un grave problema occupazionale lo dimostra la crescente emigrazione dal Mezzogiorno: una fuga che riguarda, in particolare, i giovani qualificati

 

C’è chi sostiene che con questi dati, un’intera generazione rischia di perdersi è così?

“In Italia esiste un problema generazionale che è dovuto alle insufficienti prospettive occupazionali per i giovani. Un’economia che non cresce a sufficienza e innova poco, non riesce a creare posti di lavoro adeguati in grado di assorbire l’offerta di lavoro.

Possiamo pensare che il problema occupazionale in Italia possa essere risolto rendendo il lavoro ancor più precario e sottopagato come è avvenuto negli ultimi vent’anni?

Il risultato della precarietà occupazionale è che i redditi rimangono stagnanti e ciò deprime le capacità di consumo delle famiglie. Bassi salari, si traducono in bassi consumi e, dunque, in bassa crescita. Una sorta di circolo vizioso.

Non dimentichiamo, però, che l’Italia è un paese duale. La situazione occupazionale del Nord è ben diversa da quella del Sud. L’emigrazione Sud-Nord lo attesta. Negli ultimi 16 anni, 1 milione e 883 mila persone hanno lasciato il Mezzogiorno.

È come se fosse scomparsa la popolazione di una regione come la Calabria. Il 27% degli emigrati meridionali sono giovani laureati. Secondo la Svimez, la migrazione dei laureati provoca una perdita secca  di  spesa  pubblica  investita  in istruzione  stimata  in  circa  2  miliardi  l’anno. Il valore dei  consumi  attivati  dall’emigrazione  studentesca  nelle regioni del Centro-Nord è di circa 3 miliardi di euro, che corrisponde a una perdita di pari importo per le regioni meridionali”.

Qual è la ricetta per uscire dall’empasse della nostra terra?

Non esistono ricette semplici. Bisogna ricordare che lo sviluppo economico dipende sì dall’intervento del settore pubblico ma principalmente dagli investimenti produttivi delle imprese

Sono queste a generare reddito e occupazione. Il settore pubblico deve fornire quei beni e servizi pubblici fondamentali che costituiscono le precondizioni di base degli investimenti: infrastrutture adeguate, amministrazioni efficienti, legalità, per citare alcuni ambiti fondamentali.

In tali ambiti c’è ancora molto da fare. Per esempio, è necessario rafforzare il sistema dei trasporti, per migliorare l’accessibilità della nostra regione e la sua integrazione con i mercati esteri. Ma anche realizzare iniziative già avviate, come la Zona economica speciale, che possono incentivare gli investimenti.

C’è un aspetto che merita di essere sottolineato. Oggi il divario Nord-Sud non riguarda solo l’economia. Riguarda, ancor di più, i servizi pubblici di base. Nel Sud sono carenti settori che riguardano i diritti fondamentali di cittadinanza: la sicurezza, l’istruzione, i servizi sanitari e quelli di assistenza per anziani e adulti.

Come ricorda la Svimez, queste carenze si riflettono negativamente sulla vita dei cittadini e sulle prospettive di crescita economica. In Calabria, negli ultimi anni, il settore sanitario è stato fortemente ridimensionato per ridurre i costi è ciò ha avuto inevitabili ricadute sui pazienti. Le prestazioni medie rimangono nettamente al di sotto dello standard minimo nazionale, come mostra la griglia dei Livelli essenziali di assistenza. I dati sull’emigrazione sanitaria lo confermano. Nel 2016, sono stati 33.922 i calabresi che si sono ricoverati in strutture sanitarie di altre regioni, con i costi economici e i disagi che ciò comporta. È il dato più elevato d’Italia”.

 La politica calabrese cosa può fare?

“Mi rendo conto che governare una regione con ritardi storici come la Calabria è tutt’altro che semplice. È necessario considerare, poi, che la crescita economica di una regione non dipende tanto dalla politica locale (che pure ha un ruolo importante) quanto dalle politiche economiche nazionali e da dinamiche di mercato, su cui si può incidere solo in parte.

Investire in maniera efficiente le risorse per lo sviluppo – che oggi sono quasi esclusivamente i Fondi europei – è un compito che spetta alle regioni. La qualità delle politiche pubbliche locali è poi fondamentale nella gestione del territorio e dell’ambiente. Si pensi alla programmazione urbanistica, alla depurazione e alla raccolta dei rifiuti: tutti settori in cui in passato si sono registrate forti criticità e inefficienze i cui effetti sono evidenti.

Se la politica locale può solo in parte influenzare lo sviluppo economico, può fare molto per migliorare la qualità dei servizi. Le differenze tra la sanità calabrese e quella dell’Emilia o della Toscana non dipendono dal destino, ma da scelte politiche del passato. È nel funzionamento dei servizi pubblici fondamentali, come la sanità, che le inefficienze (e le responsabilità) delle classi dirigenti appaiono più gravi”.

 

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